Come Israele riscrive la storia, di Shlomo Sand
In Israele la popolazione non vuole vivere con Gaza; vuole solo conservare il Golan. Israele ha lasciato Gaza; non vuol altro che colonizzare tranquillamente la sua “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania), senza essere infastidito da un nemico crudele. In Israele, il popolo prega per lo sterminio di Hamas e dei suoi simpatizzanti, e i più duri vi aggiungono anche quelli che, diventando grandi, lo diventeranno. Nel frattempo, gli ebrei israeliani aspirano a sviluppare e rafforzare l’identità ebraica dello Stato, che non è quella di un quarto dei cittadini, non definiti come ebrei.
“Nessuno Stato normale può accettare di essere bersaglio di razzi”, ha dichiarato, all’inizio della guerra, il capo del governo israeliano, Benyamin Netanyahu. Aveva assolutamente ragione, ma sarebbe stato il caso di ricordargli anche che nessuno Stato normale al mondo può accettare che nella sua capitale, che è anche la capitale del popolo ebraico, un terzo degli abitanti sia privato della sovranità e spogliato dei diritti democratici. Ci sono anche ben pochi Stati che rifiutano ostinatamente, dopo anni ed anni, di stabilire in modo definitivo le proprie frontiere, nella speranza non dissimulata di estenderle ancora di più. Ci sarà forse, nonostante tutto, un qualche rapporto tra tutte queste cose “anormali”?
E’ ben noto che nelle guerre della storia moderna è sempre il nemico che ha dato inizio alle ostilità; è per questo che lo Stato ebraico, pacifico, afferma di non aver fatto altro che rispondere agli attacchi di cui è stato oggetto. Qual è la verità? E’ così che si scrive la storia? Non ci sono, nella recentissima tragedia, un inizio lontano nel tempo ed un altro recente del tutto diversi, e piuttosto imbarazzanti?
Negli anni ’50, quando ero ancora un bambino, mio padre mi portava al cinema a vedere dei film western. Amava i grandi spazi, ed io i cowboys e i pionieri, e detestavo gli indiani. Era, più o meno, sempre la stessa scena: una carovana di coloni pionieri avanza lentamente e tranquillamente, e improvvisamente è attaccata da cavalieri mezzi nudi con i volti dipinti e ghignanti. Si sentono urla, le frecce sibilano, donne e bambini vengono feriti. Fortunatamente i coraggiosi eroi riescono a respingere gli assalitori; la carovana può riprendere tranquillamente il suo cammino per andare a conquistare nuovi spazi e per colonizzare il deserto. Alla fine, nei film, uscivamo sempre vincitori: io e miei eroi bianchi.
Alla fine degli anni ’60 Hollywood ha fatto una revisione maligna che ha distrutto le immagini ipocrite della mia infanzia. Allora ho visto altri scenari: dei coloni cattivi rubano la terra agli indigeni massacrandoli, e i sopravvissuti sono rinchiusi nelle riserve. Più tardi, studiando la storia, le mie opzioni politiche e morali sono degenerate. Da allora, mi sono ritrovato dalla parte delle vittime, di coloro i quali, anche se sono brutti, hanno ragione di rivendicare la propria terra e il diritto di viverci in libertà. Se sono diventato di “sinistra” una delle ragioni è che, anche se oggi faccio parte dei forti, rimango un discendente delle vittime di ieri.
Qui il racconto di lunga durata è cominciato circa 130 anni fa, quando l’Europa orientale antisemita ha cominciato a buttare fuori i suoi ebrei. Contrariamente alla massa di profughi e di emigranti che si è diretta verso la nuova Terra promessa nel Nord America, la piccola minoranza sionista ha deciso che preferiva una sovranità autoproclamata nell’antica Canaan. E’ così che è iniziata la sua colonizzazione in Medio oriente, invocando la Bibbia, come i coloni puritani ma senza motivazioni religiose. Bisogna anche ricordare che fin dall’inizio la quasi totalità di questi coloni non è venuta qui per integrarsi con la popolazione locale, ma per fondare un proprio Stato ebraico. Durante 130 anni si sono dedicati a soppiantare gli autoctoni, e sono riusciti a conquistare tutto il paese. Ogni volta, dal 1929, il gruppo di coloni è stato violentemente attaccato, ma ha sempre vinto. Ha terminato il proprio viaggio non a San Francisco, ma a Gerico, e invece di fondare Las Vegas ha fondato delle colonie nella valle del Giordano.
Il suo “errore cruciale” è consistito nel fatto che, a differenza di quanto è successo nel Nord America, non ha sterminato la maggior parte degli indigeni. E, come ha sottolineato un importante storico israeliano, ha anche commesso l’errore di non espellerli tutti lontano dal proprio nuovo Stato. Nella sua cecità, non ha previsto il futuro, lasciando vivere una parte di loro nello Stato ebraico in espansione, ed il resto ammassato alle sue frontiere. Quando vedo alla televisione le immagini provenienti da Gaza non posso esimermi dal pensare che almeno il 70% delle persone filmate sono discendenti dei profughi che una volta risiedevano nei luoghi in cui vivo e lavoro, al nord di Tel Aviv (Shaykh Muwannis), a Giaffa o a Majdal (chiamata oggi Ashkelon). Allo stesso tempo mi vengono in mente le riserve indiane del XIX secolo che, per disperazione, si ribellarono in modo violento, prima di arrendersi definitivamente alla forza dei bianchi.
Un racconto del breve periodo si sovrappone a quello di lunga durata. “Tutto a un tratto, e senza preavviso, Hamas si è messo a bombardarci con i razzi”, esclama di fronte al mondo il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Ma, anche qui, la storia è iniziata in modo notevolmente diverso. Tre giovani coloni disarmati sono stati rapiti e crudelmente assassinati in Cisgiordania, non lontano dal domicilio di quello stesso ministro degli Esteri che abita fuori dal territorio del suo Stato, nelle frontiere del paese che Dio gli ha promesso. A differenza delle sue posizioni del passato, Hamas ha smentito di aver promosso il crimine o di averlo autorizzato. (Israele non ha trovato la “prova” che sia stato il mandante del rapimento se non dopo l’inizio della guerra). Tuttavia importava poco al governo israeliano il fatto di non aver identificato i colpevoli: contemporaneamente alla ricerca degli assassini, ha scatenato una prova di forza indiscriminata contro Hamas in Cisgiordania. A disprezzo delle regole del gioco ammesse, non ha esitato a arrestare arbitrariamente, di nuovo, un numero importante di prigionieri, membri di Hamas in Cisgiordania, che erano stati liberati con l’accordo di scambio per Gilaad Shalit. Allo stesso tempo, e senza che ciò suscitasse la minima attenzione, cinque giovani palestinesi disarmati sono stati uccisi durante una manifestazione di protesta, sempre in Cisgiordania, mentre un adolescente palestinese è stato bruciato vivo da una banda di ebrei israeliani.
I dirigenti israeliani pensavano che Hamas non sarebbe stato obbligato a reagire dopo una tale dichiarazione di guerra contro di lui? Forse erano convinti che, visti i rapporti di forza, l’occupante si può permettere tutto. Si può anche supporre che dopo il fallimento dei fittizi colloqui di pace e il ravvicinamento tra Hamas e l’ANP il governo israeliano abbia deliberatamente deciso di distruggere il processo di accordo tra i palestinesi; in altre parole, umiliare Hamas, fosse anche al prezzo di una nuova guerra, incoraggiato in questo senso dall’avvento della dittatura militare in Egitto, ostile ad Hamas. Anche l’Arabia saudita ha espresso segretamente il suo sostegno. Allo stesso tempo il governo israeliano ha probabilmente immaginato di poter far tacere per sempre la seconda riserva [indiana], vicina dello Stato ebraico.
Benyamin Netanyahou, che nella sua grande generosità auspica che ogni ebreo si compri una casa di campagna in “Giudea e Samaria” ha esclamato, sotto choc:”Hanno costruito dei tunnel contro di noi, invece di costruire scuole, ospedali e alberghi”; tale era la buona ragione per una nuova guerra contro di loro. Come se una popolazione rinchiusa in una riserva sovrappopolata, soggetta da anni ad un blocco, completamente tagliata fuori dal mondo e alla quale è proibito costruire un aeroporto e un porto, si mettesse ad investire nel settore immobiliare e non in gallerie sotterranee! Sono convinto che se i gazawi ricevessero dagli Stati Uniti aerei, elicotteri e carri armati non avrebbero bisogno di trasformarsi in talpe per uscire dalla terra, alla luce del sole, e spezzare con la forza l’assedio che gli viene imposto.
In realtà ignoro quello che hanno pensato Benyamin Netanyahu e i ministri del suo governo; lascio agli storici futuri il compito di scoprirlo. So, invece, che Israele non ha mai lasciato Gaza, e che, di conseguenza, Gaza non lascerà così presto Israele. Durante questo periodo il risultato, strano e terribile, di questa guerra crudele è che Hamas ha sparato indistintamente contro i civili e ha ucciso quasi solo dei militari, mentre Israele, che diceva di voler colpire i combattenti, ha ucciso in modo massiccio dei civili. A un certo punto, nonostante l’abbondanza di armi americane sofisticate e di alta tecnologia e precisione, lo scontro è diventato un massacro di massa senza pietà.
due parti evocheranno certamente questo squilibrio. In mancanza di una soluzione equa del conflitto, le immagini di migliaia di donne, bambini e vecchi, discendenti dei rifugiati del 1948, che si aggirano tra le case distrutte nell’estate del 2014 continueranno a nutrire l’odio per molto tempo ancora.
* Shlomo Sand, professore di storia all’Università di Tel Aviv. Opere tradotte in Italia: “L’invenzione del popolo ebraico” (Rizzoli, 2010) ; “Come ho smesso di essere ebreo (Rizzoli, 2013)
(Traduzione di Amedeo Rossi)
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giovedì 21 agosto 2014
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